La TV del dolore: ovvero la curiosità morbosa in TV

Era il 10 giugno 1981, quando con la tragedia di Alfredino Rampi, scoppiò in modo potente la tendenza alla famigerata “Tv del dolore”. Alfredino era un bambino di 6 anni che morì dopo tre lunghissimi giorni di agonia dopo essere rimasto intrappolato in un cunicolo largo 28 cm e profondo oltre 60 metri. In nome di un ipotetico “diritto di cronaca” la TV (o meglio la Rai perché in quell’epoca c’era il monopolio tv!) trasformò questa immane tragedia in un orrendo circo mediatico. Come una iena famelica organizzarono dirette tv, fu calato un microfono nel pozzo che in realtà – inizialmente – doveva servire a mettere in contatto il bambino con i soccorritori ma che fu invece usato per accrescere il voyeurismo morboso dei telespettatori, amplificando in diretta tv, la voce sempre più flebile del bambino che, disperato, chiamava la sua mamma. Non fu solo Alfredino ad essere sprofondato in quel pozzo, ma era l’informazione televisiva che sprofondava in nome dell’audience. L’informazione toccò il fondo dal quale non risalì più. Anzi, da allora si iniziò a scavare! Nacque così la cosiddetta “TV del dolore”. Ma quel termine era troppo forte e fu coniato un neologismo davvero squallido, infotainment, una crasi tra “information” ed “entertainment”. Nel rievocare quella storia Piero Badaloni, a quel tempo conduttore del Tg1 della Rai e che fu quindi tra i protagonisti della narrazione di quella tragedia, dopo tanto tempo, oggi, rivela amaramente «Ci rendemmo conto progressivamente che quel fatto di cronaca locale stava diventando un evento nazionale, un evento anche televisivo che avrebbe fatto la storia della televisione. E mandando in diretta il dialogo tra Alfredino e la mamma si superò una linea di sensibilità che non avrebbe mai dovuto essere superata! Per la prima volta, la tv, spettacolarizzava il dolore».

Sono trascorsi quindi 44 anni da quel 10 giugno 1981 e la tv ha trovato un filone attuale e moderno che è tragicamente affine al “panen et circences” dell’epoca romana.
Quando la spettacolarizzazione strumentale della tragedia non è essenziale alla comprensione del fatto di cronaca raccontato ma diventa un mero strumento di accrescimento del pathos, siamo sintonizzati sulla “televisione del dolore”. Telecamere puntate su immagini di persone in lutto, pianti strazianti per la perdita di una persona cara, primi piani di occhi persi nella disperazione, ripetute domande retoriche, rallenty e replay ad amplificare l’effetto della tragicità fanno perdere, il contatto con la ricerca della verità e con la pertinenza alla trattazione del tema.

La maggior parte delle trasmissioni del mattino (senza distinzionesia nelle reti Rai che nelle tv commerciali) si occupano esclusivamente di fatti tragici in maniera morbosa. E non parliamo poi di quasi tutte le trasmissioni in prime time.

Non possiamo scordare la morbosità con cui è stata trattata in TV l’assassino della ragazza pakistana Saman ed ancor prima Yara Gambirasio (ma l’elenco è decisamente più lungo) con programmi televisivi che, sotto le sembianze di un approfondimento giornalistico, spettacolarizzano le vicende, giocano con le emozioni e mettono in risalto il dolore di parenti e amici delle vittime. Per il filosofo Carmine Castoro, queste trasmissioni, protagoniste del mondo televisivo moderno «invece di rappresentare in maniera complessa il male, ce ne danno una fiaba distorta ovvero una “misperception”». Gli esperti in comunicazione descrivono questo fenomeno con “information overflow”, ovvero un eccesso informativo che genera un falso senso di comprensione. Gli spettatori sono talmente bombardati da informazioni che confondono il guardare questi programmi con l’atto di informarsi.

Nel 1984 al fine di tentare di arginare questa deriva, la Corte di Cassazione fissò tre condizioni a cui la stampa dovesse attenersi per esercitare “il diritto di stampa” stabilendo il confine tra il diritto di cronaca, sancito dall’art. 21 della Costituzione, ed il diritto alla dignità umana, alla riservatezza e ad altri diritti costituzionali.

1)      l’utilità sociale dell’informazione;

2)     la verità (oggettiva o anche soltanto putativa);

3)     la forma civile dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire!

A nulla però servirono questi paletti visto che, è sotto gli occhi di tutti, questi programmi di “infortainment” viòlino costantemente e palesemente quei principi.

Infine buttiamola sulla sociologia e filosofia: C’è un termine tedesco che descrive perfettamente questo fenomeno, Schadenfreude, un sentimento di sottile piacere che sorge di fronte alle disgrazie altrui. Il filosofo Arthur Schopenhauer a suo tempo, definì, “diabolico” questo fenomeno intraducibile nella nostra lingua, che io tradurrei con “sciacallismo”.

L’iniziale pietas e l’empatia cedono presto il passo alla chiacchiera da salotto soddisfacendo la curiosità per i retroscena piccanti, per il gossip. Aggiungiamo infine lo spirito di emulazione che può nascere in qualche mente contorta che assiste a tali programmi per imparare, dalla descrizione degli errori commessi, ad evitare di compierli!

Ultimamente i media sono tutti galvanizzati dalla riapertura delle indagini per l’assassinio di Chiara Poggi a Garlasco. Dopo 18 anni!

In qualsiasi rete si è scatenato il “circo Barnum” di opinion makers, psicologi e tuttologi, guidati dall’intrattenitore/trice andando a rievocare fatti dell’epoca a favore del dio share. Infarcendo tra l’altro i pseudo-servizi con tante le insinuazioni e sospetti che vanno a ledere l’immagine e il dolore di queste persone, in violazione di un altro diritto costituzionale, quello di presunzione di “non colpevolezza” (ex art.27 Cost.)!

Insomma, la totale mancanza di rispetto nei confronti di deontologia professionale che dovrebbe essere alla base di qualsiasi giornalista.

E proprio riguardo al “delitto di Garlasco” Alberto Stasi, ex fidanzato della vittima, fu assolto dall’accusa sia in primo grado che in secondo grado. Poi la Corte di Cassazione, nel 2013, annullò la sentenza di assoluzione ribadendo nella sentenza che fosse difficile «pervenire a un risultato, di assoluzione o di condanna, contrassegnato da coerenza, credibilità e ragionevolezza» e quindi «impossibile condannare o assolvere Alberto Stasi», preferendo però non confermare l’assoluzione, in attesa dei nuovi esami scientifici. Infine al processo d’appello di rinvio nel 2014 Stasi venne ritenuto colpevole e condannato a 24 anni di reclusione per omicidio volontario (pena verrà ridotta a 16 anni). Non voglio addentrarmi in dettagli tecnici giuridici ma non possiamo certo non tener conto che Alberto Stasi è pur stato assolto per due volte e che quello è a tutti gli effetti un processo indiziario visto che non hanno mai trovato quella che nel telefilm americano viene chiamata “the smoking gun” ovvero “pistola fumante” cioè una prova schiacciante e incontrovertibile di un crimine.

Aggiungiamo che anche uno studente in giurisprudenza alle prime armi (mai un modo di dire poteva essere più adatto) o qualsiasi amante dei “legal thriller” di John Grisham o Scott Turowconosce tre principi cardine della giurisprudenza come

  1. in dubio pro reo: che nel diritto penale esprime la necessità in caso di dubbio di tutelare l’imputato preferendo l’assoluzione piuttosto che correre il rischio di condannare un innocente.
  2. ne bis in idem” che vieta di sottoporre una persona ad un processo per lo stesso fatto per il quale è già stata giudicata. E Stasi è stato assolto per due volte;
  3. Contro ogni ragionevole dubbio” che indica un livello di probabilità della colpevolezza molto elevato, tale da non lasciare spazio a dubbi ragionevoli sulla colpevolezza o innocenza dell’imputato.
Condividi questo articolo:

Commenta l'articolo sulla pagina Facebook del Tamburino Sardo

commenti