Negli ultimi tempi stiamo assistendo a un fenomeno preoccupante: episodi di violenza che si ripetono nelle nostre città e, soprattutto, nei luoghi che dovrebbero essere i templi del pensiero critico, le scuole e le università. Minacce rivolte a studenti e docenti con opinioni diverse, occupazioni di aule e istituti, aggressioni verbali e fisiche: tutto ciò viene spesso giustificato come una presunta ribellione giovanile, ma in realtà rivela un atteggiamento ben più profondo e pericoloso.
Dietro queste azioni non si cela un ideale costruttivo, ma un odio viscerale verso chi la pensa diversamente. Un odio che non nasce dall’affermazione di valori, ma dal rifiuto dell’altro. E qui si rivela il cuore della questione: la radice di molti di questi episodi è riconducibile ad un preciso contesto culturale e politico, quello dell’“antifascismo”, portato avanti da collettivi e movimenti, afferenti alla sinistra radicale, che si definiscono per ciò a cui si oppongono, e non per ciò che costruiscono.
Da ciò scaturisce questa riflessione: che cosa significa definirsi ANTI-?
Ritengo che dichiararsi “anti-qualcosa” non equivalga a difendere un’idea, bensì a rifiutare a priori il confronto. Non è dunque un atto creativo, ma distruttivo. Significa negare all’altro la legittimità di esistere come interlocutore, ridurlo a “nemico politico” anziché a semplice avversario. Significa erigere una barriera che stronca il dialogo, impoverisce il dibattito e sostituisce l’analisi con l’insulto. Il prefisso ANTI- è, in fondo, una scorciatoia: semplifica, chiude, esclude. Azzera il dibattito, imponendo una barriera che impedisce di esaminare nel dettaglio l’oggetto del possibile discorso.
Ma la politica autentica vive di un movimento opposto: non del contro, bensì del pro. Personalmente, ritengo più prezioso affermare con chiarezza la volontà di portare avanti un progetto alternativo e fondato su valori positivi, piuttosto che definirmi attraverso un “anti-”. Perché la politica, se è tale, è sempre costruzione, sempre ricerca di un bene comune da proporre, non una semplice reazione contro un nemico da delegittimare.
D’altra parte, osservando quanto accade negli Stati Uniti, possiamo comprendere come questo atteggiamento pericoloso rappresenti l’anticamera della violenza. In quanto, il prefisso ANTI- coincide con il disprezzo, dunque con l’odio, seguito dalla violenza e in estrema conclusione con l’abbattimento del nemico.
In luoghi di confronto e di diffusione del sapere come le scuole e le università, si dovrebbe respirare un clima di confronto serrato ma rispettoso, dove le idee possano scontrarsi senza trasformare l’altro in un bersaglio da abbattere. Se vogliamo evitare di importare in Italia le dinamiche tossiche di polarizzazione che hanno spaccato gli Stati Uniti, dobbiamo ristabilire una distinzione netta e sana: l’avversario si combatte con argomenti, il nemico si elimina con l’odio. E un confronto politico non può mai scivolare nel secondo campo.
Le idee possono dividerci, ed è giusto che lo facciano. Le convinzioni possono scontrarsi, ed è giusto che si misurino. Ma ci sono limiti invalicabili: la violenza, l’intimidazione e il disprezzo non potranno mai essere strumenti legittimi di confronto politico.
La vera sfida è tornare ad essere pro- qualcosa: propositivi, costruttivi, capaci di mettere in campo visioni e valori. Solo così la politica recupera la sua natura autentica: non muro contro muro, ma ricerca, pur nel confronto serrato, di un futuro migliore.













