Acca Larenzia: una strage impunita

C’è strage e strage. Alcune stragi meritano un’ampia eco mediatica, altre cadono subito nell’oblio. Ci sono stragi che ottengono giustizia e stragi efferate che restano impunite come la strage di Acca Larenzia che dopo 46 anni resta una ferita ancora aperta nella storia della nostra Nazione.

Era il 7 gennaio di 46 anni fa. Verso le 18:20, cinque giovani militanti missini vengono investiti da alcuni colpi provenienti da diverse armi automatiche mentre si apprestano a uscire dalla sede romana del M.S.I. di via Acca Larenzia, nel quartiere Tuscolano, per fare volantinaggio per un concerto di un gruppo musicale (“Amici del Vento”). Uno dei militanti missini, Franco Bigonzetti, 20 anni, iscritto al I° anno di Medicina e Chirurgia, rimane ucciso sul colpo. Francesco Ciavatta, studente 18 anni, sebbene ferito, tenta di fuggire attraversando una scalinata ma viene raggiunto dagli aggressori e colpito alla schiena: muore in ambulanza durante il trasporto in ospedale. Infine Vincenzo Segneri, meccanico, ferito a un braccio, riesce a salvarsi rientrando all’interno della sede del partito barricandosi dietro la porta blindata sfuggendo così al vile agguato assieme agli altri due militanti rimasti illesi, Maurizio Lupini e lo studente Giuseppe D’Audino.

Nelle ore seguenti, col diffondersi della notizia dell’agguato, una folla di attivisti missini organizzò qualcosa che ora chiameremmo un “flashmob” di protesta. Pare che per il gesto di un giornalista che, distrattamente, avrebbe gettato un mozzicone di sigaretta nel sangue rappreso di una delle vittime, nacquero tafferugli e scontri che provocarono l’intervento delle forze dell’ordine con cariche e lancio di lacrimogeni. Secondo alcune testimonianze, pare che il capitano Edoardo Sivori sparò alcuni colpi ad altezza d’uomo e fortunatamente la sua arma s’inceppò. Si fece quindi consegnare la pistola dal suo attendente e sparò di nuovo, sempre ad altezza d’uomo, centrando in pieno viso il 19enne Stefano Recchioni, militante della sezione di Colle Oppio e chitarrista del gruppo di musica alternativa “Janus” che morirà dopo due giorni di agonia.

Le vite di tre ragazzi poco meno che ventenni spezzate all’interno di un contesto storico – compreso tra la fine degli anni ‘70 e gli inizi degli anni ‘80 – passato alla storia con l’espressione giornalistica «anni di piombo», nei quali si verificò un’estremizzazione della dialettica politica che portò ad una recrudescenza della lotta armata. È questo un periodo in cui nei comunicati si giustificò l’azione terroristica di quella fredda sera di gennaio con la solita frase «uccidere un fascista non è reato».

L’agguato fu poi rivendicato tramite un’audiocassetta in cui la voce contraffatta di un giovane leggeva un comunicato dei “Nuclei Armati di Contropotere territoriale” che affermava che «Un nucleo armato, dopo un’accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larentia, ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l’ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga. Da troppo tempo lo squadrismo, coperto dalla magistratura e dai partiti dell’accordo a sei, insanguina le strade d’Italia. Questa connivenza garantisce i fascisti dalle carceri borghesi, ma non dalla giustizia proletaria, che non darà mai tregua. Abbiamo colpito duro e non certo a caso, le carogne nere sono picchiatori ben conosciuti e addestrati all’uso delle armi».

In seguito, una perizia balistica scagionò il capitano Sivori, risultò che il colpo che uccise Recchioni fosse stato sparato in realtà da alcuni brigatisti lì presenti. Sivori fu prosciolto il 21 febbraio 1983, con sentenza definitiva.

Alcuni mesi dopo l’accaduto, il padre del giovane Francesco Ciavatta, portiere di uno stabile in via Deruta 19, per la disperazione si uccise bevendo una bottiglia di acido muriatico.

Le prime indagini non portarono a conclusioni di grande rilievo.
Nel 1987, si arrivò, grazie alle confessioni della pentita, Livia Todini, all’arresto di alcuni militanti di “Lotta Continua”: Mario Scrocca, Fulvio Turrini, Cesare Cavallari e Francesco de Martiis.

Scrocca, il giorno dopo essere stato interrogato dai giudici, si tolse la vita in cella in circostanze sospette. Gli altri tre furono poi assolti in primo grado per insufficienza di prove. La stessa sorte toccò a un’altra imputata latitante, Daniela Dolce, che in seguito scappò in Nicaragua. Morale: nessuno pagò per quelle giovani vite spezzate.

Nel 1988, in un covo delle Brigate Rosse, in via Dogali a Milano, fu rinvenuta una mitraglietta “Skorpion” che risultò essere stata utilizzata nell’agguato. Gli esami balistici svelarono che quella stessa arma venne utilizzata in altri tre omicidi firmati dalle B. R.: dell’economista Ezio Tarantelli nel 1985, dell’ex sindaco di Firenze, Lando Conti nel 1986 e del senatore democristiano Roberto Ruffilli nel 1988.

Nel 2013, venne ricostruita la provenienza dell’arma, originariamente acquistata nel 1971, dal cantante Jimmy Fontana, appassionato di armi e che nel 1977 fu poi venduta legalmente ad un ispettore di polizia. Rimane ignoto però il modo in cui l’arma sia giunta poi nelle mani dei terroristi.

Francesca Mambro, militante missina in quegli anni e futura terrorista dei “Nuclei Armati Rivoluzionari”, racconta che quel 7 gennaio 1978 segnò un punto di svolta nel percorso della lotta armata di alcuni giovani. «Eravamo pochi, ci conoscevamo più o meno tutti – spiega la Mambro presente al flash mob dopo l’agguato –. Con Francesco Ciavatta avevamo militato insieme nel circolo di via Noto. La reazione immediata fu la paralisi, come quando ti muore un parente, ci guardavamo in faccia senza capire e senza sapere che fare, mentre dalle varie sezioni della città affluivano gli altri. L’uccisione di Stefano Recchioni segnò un netto cambio di rotta nelle strategie: per la prima volta i militanti di destra si erano ribellati alle forze dell’ordine».

Non finisce così. Nel I° anniversario della strage, nel 1979, l’agente di polizia in borghese Alessio Speranza uccise Alberto Giaquinto, di 17 anni, presente con l’amico Massimo Morsello  nel quartiere di Centocelle. Sangue su sangue.

Nel corso degli anni, più volte si è parlato dell’esigenza d’intitolare una strada romana alle tre vittime della strage. In occasione del XXX° anniversario, il sindaco Walter Veltroni, parlò del “dovere civile per tutta la nostra comunità” di dedicare una via alle vittime. Due anni dopo, Gianni Alemanno annunciò di voler intitolare il largo prospiciente al teatro dell’agguato ai “Caduti di via Acca Larenzia“. Ma ancora oggi, nel 2024, nessuna via o slargo è stato dedicato a Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni.

Nel 2012, in occasione del XXIV° anniversario, alcuni militanti hanno sostituito la targa commemorativa apposta nel 1978, modificando la dicitura «vittime della violenza politica» con la scritta «assassinati dall’odio comunista e dai servi dello Stato» a cui seguiva la firma “i camerati” alimentando così ulteriori polemiche da parte di associazioni antifasciste.

Dopo ben 46 anni, sarebbe storicamente corretto, consegnare determinati fatti all’analisi storica imparziale, cercando di limitare il più possibile una visione ideologica faziosa, affinché nessuno debba più pagare con la propria vita la militanza politica, costituita anche – ma non solo – da volantinaggi, manifestazioni e affissioni di manifesti.

Ancor oggi ci notiamo lo strascico di quello stesso astio. Non si usano più – per fortuna – le mitragliette “Skorpion” ma i “ban”. Maurizio Lupini uno dei superstiti di quel tragico 7 gennaio ’78, si è visto eliminare una foto, dal social di Zuckerberg, perché avrebbe violato «gli standard in materia di persone e organizzazioni pericolose».

Ecco il testo letterale del post censurato.
«7 gennaio 1978 – 7 gennaio 2020. Se da quella sera maledetta di quarantadue anni fa sarò ancora lì, come ogni anno, è anche perché è un fatto intimo…».
Nella foto incriminata, oltre alla targa commemorativa, compariva la foto della pagina del diario del 7 gennaio 1978 con scritto “Storia della giornata”.

«Spensi la luce dei locali della sezione – racconta Lupini rievocando quella giornata – e al momento di richiuderla arrivò un primo colpo che prese in pieno volto Bigonzetti, uccidendolo sul colpo. Poi una furia di colpi a raffica di mitraglietta, successivi, tanti. Io caddi all’interno spinto da uno dei ragazzi. Riuscii a chiudere la porta in faccia ai terroristi mentre Ciavatta fuggiva sulle scale che portano a via delle Cave. Venne colpito anche lui, alla schiena!».

Non è dato sapere dove sarebbe “l’istigazione alla violenza e l’incitamento all’odio” nel ricordare l’atroce una strage di 46 anni orsono nella quale persero la vita tre giovanissimi ragazzi. Misteriosi i meccanismi adottati dalla censura orwelliana del social network per bloccare pagine e sospendere account. Dietro gli algoritmi si cela un sistema da Grande Fratello (non quello televisivo!!) dai contorni inquietanti. Può un’azienda privata decidere, a sua discrezione, quali contenuti abbiano diritto di cittadinanza sulla rete e quali invece debbano essere rimossi? Ma questa è un’altra storia che meriterebbe un articolo a parte!

L’articolo è tratto dal libro «scrivo come mangio» acquistabile su Amazon (anche in versione ebook Kindle) cliccando su https://amzn.eu/d/evGIzaR

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